Una delle competenze più richieste dalle aziende è la capacità di lavorare in team.
Ma che cos’è il teamwork? È lavorare in gruppo con persone con le quali non è detto che si condivida molto. Significa coordinare e collaborare, superando confini di ogni tipo, competenza, distanza, fuso orario, ecc., per portare a termine il lavoro.
Viviamo tempi esponenziali, con turni pazzeschi e competenze sempre più circoscritte. Molto spesso bisogna lavorare con persone sempre diverse per portare a termine il lavoro, e non sempre abbiamo il lusso di avere squadre stabili.
Certo, se quel lusso è possibile, ben venga. Ma sempre più spesso, per gran parte del lavoro che facciamo oggi, questa possibilità non esiste.
Esempio: gli ospedali. Devono essere aperti 24 ore al giorno 7 giorni la settimana, e i pazienti sono sempre diversi. Sono tutti unici e diversi in modi complicati. Il paziente ricoverato in ospedale è visto da assistenti diversi durante la degenza.
Provengono da diversi turni, diverse specializzazioni, diversi settori di competenza e magari neanche si conoscono fra loro. Ma devono coordinarsi affinché il paziente venga curato al meglio. Se non lo fanno, i risultati possono essere tragici.
Certo, nel lavoro di squadra, la posta in gioco non è sempre la vita o la morte. Se penso all’azienda in cui lavoro, comunque ci vogliono competenze diverse in momenti diversi, non ci sono ruoli fissi, si fanno molte cose che non si sono mai fatte prima e che non si possono fare in un team stabile. Questo modo di lavorare non è facile, ma come ho detto, è sempre più spesso il modo in cui molti di noi devono lavorare.
Mi è capitato di lavorare in un progetto europeo che riguardava le smart cities. Forse ne avete sentito parlare: edifici a consumo netto di energia nullo, mobilità intelligente, città verdi, vivibili e meravigliose. L’urbanizzazione che il pianeta sta vivendo, e il cambiamento climatico, indicano che le città sono sempre più un obiettivo cruciale per l’innovazione. In tutto il mondo, in varie località, le persone stanno collaborando per progettare e cercare di creare città verdi, vivibili e intelligenti.
È un’enorme sfida per l’innovazione. Nel progetto in cui ho lavorato dovevano collaborare un’azienda di software per smart city, un’impresa edile, alcuni ingegneri civili, un sindaco, un architetto, alcune aziende tecnologiche e un’azienda di trasferimento di competenze (la nostra). L’obiettivo era di costruire da zero un modello di smart city. Dopo cinque anni di progetto, non era successo molto. Sei anni, ancora nessun passo avanti. Sembrava che la collaborazione al di là dei confini industriali fosse davvero, molto difficile.
Avevamo vissuto con questo progetto, lo “scontro tra culture professionali”. Sapete, gli ingegneri del software e gli imprenditori edili pensano in modo molto diverso: valori diversi, tempistiche diverse, e un gergo diverso, un linguaggio diverso. Quindi non sempre le cose si vedono allo stesso modo. Lo scontro tra culture professionali è un grande ostacolo alla costruzione del futuro che desideriamo. Come fare in modo che i team funzionino bene, soprattutto se grandi?
Per farsi un’idea di come rispondere a questa domanda, dobbiamo fare un viaggio nel tempo e nello spazio: torniamo al 5 agosto 2010 in Cile. Quel giorno la miniera di rame di San José crollò intrappolando 33 uomini a 800 metri di profondità. Questi minatori riescono a raggiungere un piccolo rifugio progettato a questo scopo, dove troveranno un intenso calore, sporcizia e cibo sufficiente per due uomini per dieci giorni. Non ci vuole molto perché gli esperti in superficie capiscano che non c’è soluzione. Nel settore, non esiste una tecnologia capace di perforare rocce così dure e profonde abbastanza velocemente da salvare loro la vita. Non si sa esattamente dove si trovi il rifugio. Non è neppure chiaro se i minatori siano vivi.
Per 10 settimane centinaia di persone provenienti da professioni diverse, aziende diverse, settori diversi e anche nazioni diverse fecero lavoro di squadra.
Ci sono state molte idee, si sono provate molte cose. Hanno sperimentato, hanno fallito, hanno vissuto ogni giorno insuccessi devastanti, ma si sono ripresi, hanno insistito e sono andati avanti.
Durante quella crisi in Cile sono stati capaci di essere umili di fronte a una sfida estremamente reale.
Erano disposti a correre rischi per capire rapidamente cosa poteva funzionare. Idee e progetti venivano proposti da brillanti ingegneri minerari, dalla NASA, dalle forze speciali cilene, da volontari di tutto il mondo. Mente il mondo guardava, queste persone facevano progressi lenti e dolorosi attraverso la roccia. Il 17° giorno finalmente hanno aperto un varco verso il rifugio.
Grazie a una serie di tecniche sperimentali, con una piccola incisione sono riusciti a trovarlo. Poi, per i successivi 53 giorni, quella stretta linea sarebbe stata la via attraverso la quale cibo, medicine e comunicazione avrebbero viaggiato, mentre in superficie, per altri 53 giorni, proseguiva il lavoro di squadra per trovare il modo di creare un buco molto più grande e per progettare una capsula che li tirasse fuori. Poi, il 69° giorno, dopo oltre 22 estenuanti ore, sono riusciti a tirar fuori i minatori, uno per uno.
Come hanno fatto a superare lo scontro di culture professionali? Direi, in una parola, con la leadership. Quando il lavoro di squadra funziona, si può essere sicuri che alcuni leader, leader a tutti i livelli, sanno benissimo di non avere le risposte. Chiamiamola “umiltà situazionale”. Le persone che hanno lavorato per liberare i minatori erano molto curiose e questa umiltà situazionale combinata con la curiosità ha creato un senso di sicurezza psicologica che ha permesso di correre rischi con degli sconosciuti, perché, ammettiamolo: è difficile parlare, è difficile chiedere aiuto, è difficile proporre un’idea che potrebbe anche essere stupida, se non si conoscono le persone molto bene. Per farlo serve sicurezza psicologica. Hanno superato quella che possiamo chiamare la sfida umana di base: è difficile imparare se già sai. Dobbiamo ricordare a noi stessi di essere curiosi di ciò che gli altri propongono.
Dobbiamo anche aggiungere che è terribilmente difficile fare squadra se si vedono gli altri come concorrenti.
Abraham Lincoln disse una volta: “Non mi piace molto quell’uomo. Devo conoscerlo meglio.”
Questa è la mentalità che bisogna avere per un lavoro di squadra efficace. Lavorando in isolamento, possiamo ottenere risultati. Ma quando facciamo un passo indietro e ci mettiamo in contatto con altri, possono accadere miracoli. Si possono salvare minatori, curare pazienti e creare smart city. Per riuscirci, credo non ci sia consiglio migliore di questo: cerchiamo i talenti unici, le competenze e le speranze dei colleghi, e a nostra volta, trasmettiamo ciò che possiamo offrire. Perché, per collaborare e per costruire il futuro che sappiamo di poter creare, ma che non possiamo creare da soli, questa è la mentalità che ci serve. Per questo il teamwork è una competenza che viene richiesta dalle aziende. Viviamo in un mondo troppo complesso per i “battitori liberi”.
Nella nostra playlist allora aggiungiamo Leader dei The Clash, You get what you give dei New Radicals e Ci vuole molto coraggio degli Ex-Otago.
Nazario De Mori