Essere leader o non essere leader. Questa è la domanda/1

Sono un leader? Che tipo di leader sono? In questo ultimo mese ho dovuto pensare molto alla leadership. In azienda abbiamo avuto delle attività che ci coinvolgevano su questo tema.

Cosa vuol dire essere leader? Cos’è la leadership?

Ho dovuto rimettere in discussione molte delle mie convinzioni ed in qualche modo sono entrato in crisi.

La leadership si insegna oppure dipende esclusivamente dal nostro carattere?

Invece di insegnare leadership, in questo momento storico non è meglio insegnare la “followerships”? Cioè i buoni seguaci riescono a creare i grandi leader?

Ovviamente, dato il mio carattere, ho dovuto leggere molto ed approfondire l’argomento ed ho capito che per essere buoni leader occorre avere 12 caratteristiche. Sono caratteristiche che occorre declinare puntualmente, e quindi ho deciso di elencarle in 3 post diversi, così da non essere troppo lungo. Cominciamo

1.  Non sentirti mai troppo grande per fare le cose piccole

Il leader è il primo che si mette in gioco; anche a svolgere compiti più umili da condividere con le persone del proprio gruppo. Non bisogna sentirsi mai troppo grandi per fare le cose piccole. Perché la sfida è migliorare sempre, perfezionarsi di continuo, anche quando sei già il migliore.

Soprattutto quando sei il migliore. Questo atteggiamento aiuta ad essere in relazione con la realtà dell’ambiente in cui siamo immersi, perché bisogna avere orgoglio assoluto nella performance e umiltà totale di fronte alla grandezza del compito. Inoltre ci permette di entrare in un’ottica di miglioramento continuo; non ci permette di sentirci arrivati al culmine della nostra carriera, perché la sfida è migliorare sempre, perfezionarsi di continuo, anche quando sei già il migliore. Aiuta anche a forgiare il carattere del gruppo di cui siamo leader: un gruppo di individui capaci ma indisciplinati alla fine non potrà fare altro che fallire; il carattere trionfa sempre sul talento.

2. Quando arrivi al culmine, cambia obiettivo

Bisogna essere pronti al cambiamento, sia che si lavori in un ambiente molto strutturato che in uno più semplice da gestire. Il declino organizzativo è inevitabile a meno che i leader non si preparino per il cambiamento, persino quando si trovano all’apice del successo. Esempi? Kodak, Nokia, Blockbuster….Tutte aziende che erano i player principali dei loro settori e che si sono estinte (in qualche modo). Bisogna quindi creare un’organizzazione vincente che abbia un ambiente di sviluppo personale e professionale in cui ogni individuo si assume le proprie responsabilità e ne condivide il possesso. (Questo è per il mio G.M., che si è battuta fortemente per creare un ambiente di knowledge sharing)

3. Gioca con uno scopo. Chiediti: perché?

Questo è uno dei miei punti preferiti. Troppo spesso nelle aziende il perché, la motivazione che ci spinge a lavorare per un determinato obiettivo, viene sottostimata o taciuta. E invece i leader collegano il significato personale a uno scopo più alto per creare un valore condiviso e indicare una direzione. Diciamo che, visto che vivo in un ambiente circondato di psicologi, “L’autorealizzazione è possibile solo come effetto collaterale della trascendenza da sé”. Cioè dell’andare oltre se stessi. E comincia con la domanda: perché?

Alcuni esempi anche qui? L’agenzia Saatchi & Saatchi vuole rendere il mondo un posto migliore per tutti, la Ford vuole democratizzare l’automobile, la Disney porta il sorriso sul volto dei bambini, la Nike dà forza al singolo, la Procter & Gamble è all’instancabile ricerca di essere la migliore mentre per la Toyota c’è sempre un modo migliore. E avete presente il Barcellona, la squadra di calcio? Sugli spalti hanno scritto la frase “mes que un club”: più di una squadra. Il loro perché è la Catalogna, la libertà. Vogliamo essere un po’ più prosaici? Allora sappiate che “Le persone non comprano quello che fa un’azienda, ma il perché lo fa” (Simon Sinek, “Partire dal perché”) . I leader, le aziende e i team motivati trovano il loro scopo più profondo, il loro “perché?”, e attirano sostenitori grazie a valori, visione e convinzioni condivisi.

4. I leader creano leader

In un’azienda che vuole avere un futuro, ma anche un presente, i leader creano leader trasferendo responsabilità e creando fiducia. Perché responsabilità condivisa significa senso di inclusione e quindi che gli individui sono più motivati a spendersi per una causa comune. Una grande verità, non detta da me ma da Tom Peters, è che “I leader non creano seguaci. Creano altri leader”. Per fare ciò occorre trasmettere ai membri del team un senso di grande autostima: che ciascuno, in qualsiasi momento, possa sentirsi ed essere la pedina più importante.

Prossimamente altre 4 punti su cui focalizzarsi per essere leader.

Nazario De Mori

Competenze che aiutano a resistere in tempi difficili

Quali sono le caratteristiche aziendali che fanno di un’organizzazione un sistema destinato a durare nel tempo e capace di affrontare le avversità?

E’ questa la domanda che mi è frullata in testa in questi mesi complessi. Mesi in cui alcune aziende sono riuscite a gestire tranquillamente l’attività anche a distanza ed in altre invece, i lavoratori hanno vissuto questa trasformazione organizzativa in modo a dir poco distruttivo.

Dopo numerosi ripensamenti, sono arrivata alla conclusione che ci sono due caratteristiche secondo me necessarie, per affrontare il cambiamento organizzativo che stiamo vivendo.

Al primo posto metto la capacità dell’azienda di gestire la Knowledge sharing ossia la capacità di condividere le informazioni all’interno e all’esterno dell’organizzazione.

In questa competenza l’elemento di usabilità digitale è sicuramente fondamentale e nell’attuale periodo di accelerazione dello Smart working, ha fatto la differenza.

Non dobbiamo però cadere nell’errore di considerare solo questo aspetto.

Per essere in grado di sviluppare una reale Knowledge Sharing è necessario saper far “ruotare le informazioni” sia a livello orizzontale (tra i membri del team) che a livello verticale (dai singoli verso il management).

Se l’usabilità digitale ha consentito ad alcune aziende di affrontare la pandemia con relativa tranquillità, attivando immediatamente lo Smart working e il telelavoro, è stata principalmente la capacità di dare e ricevere feed back che ha diviso le organizzazioni tra chi è riuscito ad implementare il lavoro agile e chi invece ne è stato travolto. Stiamo parlando di una competenza soft fortemente strategica, legata alla capacità del singolo di capire quali informazioni devono essere comunicate e con quale mezzo. Anche a distanza, è necessario che i feed back siano costanti, veloci e focalizzati.

Più un individuo è consapevole della loro importanza, ed è capace di dare e ricevere feed back più può vantare una seniority di ruolo all’interno dell’organizzazione.

La seconda competenza fondamentale che ritengo necessaria per le aziende che intendono durare e svilupparsi nel tempo, la individuo nella Learning Organization, ossia nella capacità di una azienda di svilupparsi come una “comunità che apprende”. Di questo concetto se ne parla da diversi anni, ma mai come ora ne vedo tutta la rilevanza strategica.

Una azienda ha successo nel tempo se investe, con pazienza, sulla costruzione di un sapere comune, indipendente dai singoli, costruendo giorno per giorno una logica organizzativa in cui “nessuno deve ritenersi indispensabile”

Nella learning organization si è consapevoli che bisogna evitare di creare degli accentramenti di conoscenza legati ai singoli. Forse un tempo quando il lavoro in una azienda era “per sempre” poteva avere un senso investire solo su alcune persone, ma oggi, con la fluidità del mercato del lavoro è assolutamente un errore quello di accettare da evitare la personalizzazione della conoscenza.

Una organizzazione che investe nella condivisione del sapere, lavora a livello organizzativo affinché tutto il personale utilizzi strumenti e costruisca una mentalità allenata a condividere il sapere comune in termini di diffusione della cultura aziendale.

Più le aziende sposano questo concetto più avvertono la necessità di creare un posto fisico o virtuale dove far crescere e distribuire il sapere aziendale.

Si chiamano Academy aziendali i luoghi in cui, non solo si apprende e si assicura l’occupabilità del proprio personale, ma dove si forgia e si racconta la cultura aziendale. Adoro pensare che alcune aziende hanno scelto il termine di Corporate University per indicare questi luoghi, proprio come a dire che la cultura superiore si sviluppa, non solo a scuola o nelle università, ma anche in azienda e che questo sapere può aprire le sue porte anche al territorio, contaminandolo.

In questa logica l’azienda diventa luogo dove si apprende e dove si mette in circolazione la conoscenza. Posto dove trascorrere la singola esperienza lavorativa nella convinzione che ogni giorno si crescere professionalmente e si contribuisce a generare un sapere condiviso capace di garantire la propria occupabilità. Spazio dove ognuno si sente parte di un tutto che cresce e fa crescere. Luogo culturale dove insieme si cercano strategie in tempi difficili.

“E’ questo il tempo delle cattedrali” cantava Riccardo Cocciante in un noto musical spiegando così un intero periodo storico.
Io oggi, per raccontare questo decennio direi “E’ questo il tempo delle Corporate Academy”.